Il Maestro Sacconi
nella testimonianza del violoncellista
Amedeo Baldovino


Firenze, 21 giugno 1985


Fu nel 1961, credo, che a New York incontrai per la prima volta Simone Fernando Sacconi. Ero andato da Wurlitzer sperando di trovarlo per un piccolo lavoro al mio Stradivari e forse più ancora per conoscerlo. Avevo tanto sentito parlare di lui e avevo ammirato una copia di un violoncello Stradivari che aveva fatto quando era ancora a Roma. Lo trovai e quando lo vidi accogliermi realizzai che tutto ciò che sapevo di lui aveva poco significato in rapporto alla sua presenza viva. Dopo poco, quasi lo avessi conosciuto da tempo, il suo calore, il modo diretto e niente affatto convenzionale con cui mi parlava mi parvero affascinanti e familiari.

Prima ancora che tirassi fuori dall'astuccio il «Mara», egli me lo descrisse. Ne fui stupito sebbene sapessi che lo conosceva prima che diventasse mio nel 1954. Quando lo ebbe in mano disse come parlando a se stesso seguendo un pensiero: "Questo quando nacque era forse più bello del 'Duport'." Sapevamo che la sua esistenza più «travagliata» gli impediva di mantenere la sua supremazia dopo due secoli e mezzo! Da Wurlitzer quel giorno c'erano altri quattro violoncelli di Stradivari: il Duport, il Davidoff, il Vaslin (allora di Warburg) e un altro da restaurare che era appartenuto una volta a Paul Grümmer. Sacconi con semplicità li mise uno accanto all'altro su di un grande divano, così come si mettono insieme dei fratelli, e vi aggiunse il mio, ultimo arrivato.

Mai aveva visto e mai vedrà più il mio occhio di violoncellista tanta grazia di Dio! Mentre io estasiato guardavo, la sua voce commentava facendomi notare particolari da sogno... le sue osservazioni esperte e sensibili non materializzavano ma trasfiguravano quella preziosa materia...

Lo incontrai ancora e lo ebbi ospite da me a Roma dove si fermava andando a Cremona per ridare alla città l'Arte perduta, ordinando il Museo e la Scuola di Liuteria.

E fu proprio a Cremona, qualche anno dopo, che insieme a Renato Zanettovich lo trovammo felice e circondato da discepoli e da amministratori della città (credo anche il Direttore dell'Ente del Turismo). Volevamo mostrargli un violino attribuito da un nostro amico comune (E. W. Paul di Londra) a Guarneri del Gesù 1734. Glielo demmo e ricordo, come lo vedessi ora, il suo viso attento a captare ogni più piccolo segno, positivo o negativo, che potesse confermare o smentire l'attribuzione.

L'esame sembrava non finire mai, nel silenzio dei presenti. Era interessante notare come Sacconi entrasse gradualmente nello strumento. E, come quando si stenta a riconoscere dopo lungo tempo un volto noto e amato e la gioia entra in noi, l'espressione del suo viso si andava trasformando.

Cominciò finalmente a parlare accarezzando i contorni del violino quasi con tenerezza. Spiegava come usava fare il Maestro, trovando e mostrando a noi i segni rivelatori. La sua magia ci rendeva palese la vita nello strumento come assistendo a una resurrezione. Non so quanto tempo ci tenne così appesi alle sue parole. Ricordo il suo trasporto quando distinse all'interno del fondo un piccolo segno che disse era la traccia lasciata da un minuscolo cuneo metallico che il Maestro usava per la misurazione degli spessori.

Il resto del giorno passò lietamente come a festeggiare il ritorno nella città natale di una creatura da lungo tempo perduta.

Firenze, 21 giugno 1985

Tratto dal libro: «Dalla liuteria alla musica: l’opera di Simone Fernando Sacconi», presentato il 17 dicembre 1985 alla Library of Congress di Washington, DC (Cremona, ACLAP, prima edizione 1985, seconda edizione 1986, pagg. 184-185 - Italian / English).