New York, 28 febbraio 1984
Link: Carlos Arcieri
Il Maestro Sacconi era in Italia
per le sue vacanze estive quando fui assunto alla Wurlitzer. A quell'epoca
avevo 24 anni ed ero venuto negli Stati Uniti due anni prima per continuare i
miei studi di belle arti. Quando egli tornò due settimane dopo, ebbe inizio il
mio apprendistato con lui e presto l'ammirazione che avevamo l'un per l'altro
si sviluppò in una specie di relazione padre-figlio.
Lavoro tuttora come liutaio
grazie a Sacconi. Infatti, molte delle cose più importanti relative al mio
lavoro che mi sono successe nella vita da quando l'ho conosciuto sono dovute a
lui.
Fu un uomo di un valore
incalcolabile e fu insuperabile tra i liutai del ventesimo secolo. L'unico al
quale potrebbe essere paragonato per l'intuito nel costruire strumenti è il
famoso Vuillaume vissuto nel secolo scorso. Per quanto riguarda la sua vasta
conoscenza degli strumenti e la sua abilità nel ripararli, non credo ci sia
stato nessuno come lui negli ultimi duecento anni. Molti dei liutai più
rispettati in questo Paese e in Europa hanno avuto rapporti di lavoro con lui.
La sua reputazione era saldamente affermata e con la sua personalità influenzò
chiunque fosse venuto in contatto con lui. Per darvi un esempio di come fosse
nel suo lavoro, vi dirò del restauro che facemmo sulle fasce di un Guarneri del
Gesù. Ebbe una tale cura nel rifinire i dettagli che quando ebbe terminato il
lavoro sembrò che l'intero strumento fosse tornato al suo stato originario.
Sacconi era sempre parte di tutto ciò che faceva e si prendeva così a cuore il
suo lavoro che ogni dettaglio lo coinvolgeva completamente. Era veramente
impressionante!
Andava spesso in Europa, dove
passava la maggior parte del suo tempo a Cremona, lavorando con i liutai del
posto e aiutandoli in tutti i modi possibili. Questi viaggi lo ringiovanivano e
diceva: "Sai che la mia pressione è sempre stata normale mentre ero in
Italia!" Mi era così caro e mi premeva così tanto il suo benessere che lo
incoraggiavo ad andare a stare in Italia se questo lo faceva sentire così bene,
anche se sarebbe stata per me una tremenda perdita non poter lavorare con lui.
Tuttavia, quando egli tornava alla fine dell'estate, c'erano sempre tantissimi
strumenti che aspettavano di essere identificati. Da Wurlitzer, le decisioni di
Sacconi e di D'Attili erano le uniche che contavano veramente quando si
trattava di identificare uno strumento.
Una volta gli domandai perché non
avesse un proprio negozio ed egli mi rispose semplicemente con un sorriso.
Arrivai addirittura al punto di dirgli che avrei lavorato gratis per lui se lo
avesse fatto; gli volevo così bene! Tuttavia, egli sapeva che se avesse avuto
un proprio negozio non avrebbe più potuto dedicarsi completamente alla
costruzione e al restauro degli strumenti (ho capito nel frattempo, per
esperienza personale, che aveva ragione). Inoltre, non era un uomo d'affari, ma
un artista.
Il suo semi-pensionamento verso
la fine della sua vita creò molte difficoltà per me, ma in un modo o nell'altro
sono riuscito ad imparare un'incredibile quantità di cose da lui nei soli due o
tre giorni alla settimana che veniva alla bottega, perché avevamo un rapporto
stretto. Certo, mi mancava tanto la sua guida a tempo pieno, ma ero felice che
avesse più tempo da dedicare al lavoro nel suo laboratorio a casa e alla pesca
mattutina che gli piaceva moltissimo. Il modo in cui egli lavorava con me mi ha
sempre fatto sentire come se egli stesse spiegando al proprio figlio l'arte
della liuteria. Aveva una tale fiducia in me da portarmi l'Hellier (famoso
violino di Antonio Stradivari, n.d.r.) e la copia che ne aveva fatto,
perché io li curassi per lui, e ciò soltanto per spronarmi ancora di più nel
lavoro.
Sembrerà strano, ma non riuscivo
mai a chiamarlo «Fernando». Dovevo proprio chiamarlo «Maestro». Sono cresciuto
con la convinzione che i maestri o i mentori meritino grande rispetto; perciò,
non avrei mai potuto chiamarlo neanche «Signor Sacconi», perché soltanto
«Maestro» mi sembrava abbastanza rispettoso.
Trovavo il suo insegnamento
estremamente esplicito, riuscivo a capire ogni dettaglio che quest'uomo mi
spiegava su cosa fare o non fare, grazie alla sua capacità di mostrare come il
lavoro doveva essere eseguito. Feci con lui progressi così rapidi che in circa
sei mesi ero già capace di fare gran parte delle riparazioni generali e, dopo
circa un anno, lavoravo già al restauro di strumenti pregiati. A lui va gran
parte del merito per tutto questo, perché mi ha insegnato in modo eccezionale.
Era soprattutto nell'arte del
ritocco che ci intendevamo molto bene, per la mia preparazione nelle belle
arti. Quando cominciai a lavorare con lui, ero totalmente dedito al mio lavoro
di pittore. Ero serissimo nella mia intenzione di abbandonare la liuteria per
dedicare il cento per cento del mio tempo alla pittura e alle mostre, e avevo
già esposto le mie opere in numerose gallerie di New York. L'unico motivo per
cui mi trovavo ancora da Wurlitzer era perché Sacconi continuava a insistere che
io restassi, soprattutto dopo i numerosi pranzi che facemmo insieme, durante i
quali mi raccontava dei grandi liutai che erano stati pittori e scultori, come
lui stesso.
Quando mi sposai, cominciò a
farsi alleata mia moglie perché lo aiutasse nel convincermi a non abbandonare
la liuteria. Le telefonava dicendo: "Carlos deve continuare! Devi usare la
tua influenza per convincerlo a rimanere, perché sarà grande." Io
continuavo a dire di no e Sacconi temeva che avrei abbandonato del tutto la
liuteria. A quell'epoca, lavoravo sui violini solo due o tre giorni alla
settimana e impiegavo il resto del tempo a dipingere e a preparare mostre. Nei
due mesi prima che morisse, Sacconi telefonava in continuazione a mia moglie e
a me, e ogni volta ripeteva: "Devi ritornare a questo lavoro!" Nel
frattempo, senza dirmi niente, aveva parlato di me a vari musicisti.
Nel giugno dello stesso anno lo
incontrammo al matrimonio di un liutaio, dove mi chiese di assisterlo nella
costruzione di un quartetto; fissammo la data, che risultò poi essere soltanto
una settimana dopo la sua morte. Due settimane dopo questo incontro ricevemmo
la telefonata che ci annunciava la sua scomparsa ed entrambi, io e mia moglie,
ne rimanemmo sconvolti. Era terribile pensare che non fosse più con noi, dal
momento che egli era una così forte presenza nelle nostre vite. Sacconi era
stato come un padre per tutti noi; mi si spezzò il cuore e piansi veramente per
questa così grande perdita.
La sera della sua morte, io, mia
moglie e tre suoi allievi andammo a rendere omaggio alla salma con un cuscino
di rose rosse, per vederlo per l'ultima volta. La scena fu molto commovente
perché quando entrammo la signora Sacconi, Teresita, venne verso di noi a
braccia aperte esclamando: "Ecco qui i suoi figli!"; poi ci abbracciò
tutti affettuosamente. Noi l'amiamo tutti moltissimo e fummo così commossi dal
suo gesto che io non potei trattenere le lacrime.
Egli è stato un modello per me
non solo nel mio lavoro, ma anche nel mio matrimonio, dal momento che entrambi,
io e mia moglie, ammiravamo l'amore che lui e Teresita nutrivano l'uno per
l'altra, amore che in realtà non è mai finito, perché ella sente ancora la sua
presenza. Io e mia moglie sappiamo che egli voleva veramente bene anche a noi.
Poiché il Maestro Sacconi ci teneva
così tanto che io continuassi nella liuteria, dopo la sua morte mi sentii quasi
obbligato a continuare. Ho avuto persino la strana sensazione di non avere
scelta. Quell'anno ci prendemmo un'intera estate di vacanza e andammo in
Europa, perché io avevo bisogno di tempo per riflettere. Quando tornai quasi
convinto, furono i clienti che decisero la questione. Cominciai a ricevere
telefonate dalle persone più svariate che dicevano: "Il Signor Sacconi ci
ha parlato di Lei, quindi sappiamo che Lei è bravo!" Questo è stato
l'inizio di tutto.
Ho una fotografia di Sacconi nel
mio negozio, appesa dietro di me mentre lavoro. Lo chiamo il mio angelo
protettore; lo so che sembra sciocco, ma io ho come delle conversazioni con
lui, specialmente quando sono in difficoltà e gli dico qual è il mio problema.
In qualche modo sento che, con lui là, posso risolverlo meglio: è
come avere una spalla su cui appoggiarsi. Se qualcosa va storto, mi giro e do
la colpa a lui, poi penso a cosa lui avrebbe fatto in una situazione simile.
Cerco ancora di seguire i suoi ideali, di essere mentalmente elastico e di
curare ogni dettaglio dei restauri che sto facendo nel modo che lui avrebbe adottato.
Avevamo e abbiamo ancora una specie di relazione spirituale. A volte sento che
sto facendo le cose più a modo suo che mio! Credo sia questo ciò che continua a
farmi avere successo nel mio lavoro.
New York, 28 febbraio 1984