Cremona, 18 ottobre 1972
Nel titolo del libro figura messa
tra virgolette e al plurale la parola segreti che, di solito, associata nel
singolare al nome di Stradivari, si crede dia la misura della grandezza del
liutaio di Cremona. Si è voluto, così, demitizzarla per il rifiuto di ridurre
l'arte alla concezione materiale di un segreto, che implica alla fine e
comunque una rivelabilità del medesimo, in questo caso di una ricetta, sul tipo
di quelle di cucina o di farmacia, se è attorno alla vernice soprattutto che si
è sbizzarrita la fantasia popolare. Se mai, il differenziarsi di Stradivari da quanti
altri liutai siano mai esistiti alla sua epoca consisterà proprio nell'avere
egli fatto con i comuni mezzi a disposizione di qualsiasi altro liutaio
contemporaneo qualcosa di unico e irripetibile. Quanto l'artista produce
diventa in un certo senso segreto, in parte anche a lui stesso inconoscibile.
Egli vede e opera e investe del suo sguardo e pensiero il reale, altrimenti dai
suoi simili. Ma questo, allora, è mistero.
L'argomento del libro è
esclusivamente di tecnica e riguarda i dati di un mestiere alla cui definizione
hanno contribuito generazioni di artigiani attraverso diverse esperienze
artistiche; ma sul piano dello stile e della forma particolari il problema si
presenta come individuale, cioè della espressione artistica liutaria
stradivariana, dove tecnica e forma sono in funzione del fine che è la qualità
del suono che lo strumento dovrà dare.
Il libro si limita a dirci come
Stradivari costruiva i suoi strumenti musicali restituendoci conoscenze
dell'artigianato antico ritenute irrecuperabili e che, se ci suggeriscono e
spiegano molti perché delle eccezionali qualità sonore, non pretendono, come
ogni analisi di un'opera d'arte, chiudere l'argomento con la somma di un loro
totale, operazione questa sempre aperta nel tempo. Sulla complessa composizione
della vernice e sul modo di impiegarla Sacconi ha dettato il capitolo più
prestigioso del libro, dove la conoscenza di fenomeni e materie prime della
natura, come ebbero a sperimentarli gli artisti del Rinascimento italiano,
rivivono secondo la pratica delle botteghe dei mestieri e la coscienza
scientifica delle loro funzioni, proprie dell'artigianato che è un misto di
scienza e di arte.
I disegni esemplificativi che
illustrano le sezioni auree della composizione di una forma per violini
rispondono a conoscenze divulgatissime al tempo di Stradivari e ci dimostrano
come tutte le operazioni delle fasi costruttive obbediscano a un ordine
matematico, che regola la struttura e quindi la forma dello strumento musicale.
Si direbbe che qui la geometria sia come l'anima, il simbolo del suono vivente
nello strumento come quel profumo che Sacconi avverte ancora nei legni dei
violini stradivariani e dato da una delle componenti della vernice colorata.
Il titolo del libro, dunque,
promette cose nuove e le garantisce l'autorità del nome dell'autore, universalmente
riconosciuto il maggiore liutaio contemporaneo. Non manca il maligno che butta
lì la battuta che, se vuole, Sacconi sa anche farlo un violino come Stradivari.
A riportargli il pungente complimento egli sorride per la parte di lusinga che
contiene e, se ricorda che è accaduto, sì, che un suo violino fosse scambiato
per uno Stradivari da celebri violinisti, scuote poi la testa e scrolla le
spalle e prende un'espressione come beata al pensiero della insuperabilità di
quello che egli per antonomasia chiama il Maestro, come se parlasse di persona reale
che si può ancora incontrare in una via di Cremona. Il culto di Sacconi per
Stradivari ha un fondo sentimentale di origine ottocentesca, divenuto razionale
attraverso la sperimentazione della tecnica del Maestro conosciuta soprattutto
mediante l'esercizio delle riparazioni dei suoi strumenti che giungono nel
negozio della casa Wurlitzer, per la quale lavora, da ogni parte del mondo.
Questa umile fatica egli l'accetta ancora a settantasette anni con l'attenta
curiosità dell'artista che nello strumento antico intuisce e vede operare,
sente in ogni parte la presenza della mano del Maestro e cerca il significato
in ogni segno che corrisponda a un ragionamento costruttivo. Di sfuggita
accenna nel libro di aver riparato trecentocinquanta strumenti di Stradivari.
Simile conoscenza dall'interno
dell'opera d'arte ha spinto Sacconi al ricupero di una tecnica andata perduta e
che aveva dato risultati insuperati. Da essa egli è ripartito per avvicinarsi il
più possibile alle caratteristiche che furono proprie della scuola cremonese.
Sacconi si ripropone di ricreare, ai limiti del possibile, le medesime
condizioni di lavoro antiche, di servirsi dello stesso tipo di materiale del
posto impiegato da Stradivari, di rispettare, a volte, per le riparazioni di
certi strumenti, persino il dosaggio parsimonioso di alcune sostanze più
costose al tempo del liutaio cremonese, per accompagnarle ad altre a più buon
mercato; e questo, oltre che per fedeltà al particolare tecnico da rispettare,
per il piacere di un'adesione interiore alla psicologia del maestro, da
discepolo che ne ha indovinato il preciso comportamento.
Durante i suoi viaggi in Europa
non manca mai di fare una sosta a Cremona il cui nome egli pronuncia come
sinonimo di Stradivari. Qui si raccomanda agli amici perché gli facciano avere
certi legni o gli raccolgano lungo gli argini del Po un'erba, l'asprella o «coda
di cavallo», che egli impiega per levigare il legno (mai la carta vetrata,
ohibò!); oppure si assicura presso alcuni apicultori della campagna
cremonese un prodotto di scarto degli alveari, che costituisce una delle materie
prime della vernice. Quella cremonese è migliore dell'americana. Vista incisa, in
una lastra del rivestimento in marmo della parte inferiore del Torrazzo,
l'antica misura del braccio cremonese con le divisioni in once, misura che
conosceva riprodotta al vero nella grande pianta della città di Cremona di
Antonio Campi – ma di poco infedele per il lieve restringersi della carta col
tempo – ha voluto prendersi, con l'aiuto di una scaletta, i corrispondenti
centimetri del braccio scolpito. Nel disegno di un liuto Stradivari dà le
misure in once.
******
Ma vogliamo conoscerlo meglio
Sacconi, biograficamente, a cominciare dalla sua «éducation sentimentale»? Nato
a Roma il 30 maggio 1895, a otto anni cominciò a interessarsi alla liuteria
aprendo un violino del padre, Gaspare, professore d'orchestra, per vedere come
era fatto dentro. «La forma dei violini mi affascinava, cominciai a
disegnarli» dice Sacconi. Il padre lo portò da un liutaio di Roma, un
veneto, Giuseppe Rossi, buon intagliatore. Rimase nella sua bottega di via Tor
di Nona, 70, otto anni. Il mattino, prima di recarsi alle scuole elementari, andava
ad aprire e pulire il negozio. Lungo la strada passava davanti a vari
intagliatori.
«Uno specialmente – mi
dice – mi attirava di più, Ernesto Sensi eccellente artista. Mi fermavo
fuori della vetrina per vederlo, incantato, maneggiare la sgorbia con facilità
e destrezza. Una mattina d'inverno lo scultore che oramai mi conosceva mi aprì
la porta invitandomi ad entrare; dentro c'era un odore di cirmolo, la bottega era
piena di candelabri, cornici, pezzi di mobili. Il Sensi lavorava di solito per
il Vaticano». Fu da lui consigliato a frequentare la scuola di Belle Arti
dove studiò per cinque anni. «Se vuoi fare il liutaio lo devi fare alla
perfezione» gli raccomandava il padre. All'Accademia imparò a disegnare, a
modellare, scolpire il legno seguendo il precetto: prima scultore e
intagliatore, poi liutaio. Frequentava, intanto, anche le biblioteche per
leggervi autori antichi che avevano trattato di vernici.
Il primo violino di Stradivari lo
vide a tredici anni, quando con una lettera del maestro Bernardino Molinari
poté presentarsi al famoso violinista ungherese Franz Vecsey. Il giovane Sacconi
aveva con sé, con la carta da disegno, compassi spessimetri per poter misurare
gli spessori della tavola e del fondo del violino. Gli fu concesso di «lavorare»,
ma tenendo il violino sul letto. Quando il Vecsey aprì l'astuccio doppio con lo
Stradivari, il «Berthier», e un altro violino, il ragazzo non ebbe incertezze
nella scelta e senz'altro prese lo Stradivari, mentre il suo gesto era
accompagnato da un: «Très bien, faites attention» ricorda ancora Sacconi.
L'esame del «Berthier» lo portò a
constatare che lo spessore della tavola armonica era di mm 2,3, ma ritenne
quella sottigliezza il risultato di una manomissione, perché secondo gli insegnamenti
appresi lo spessore avrebbe dovuto essere al centro di mm 5, diminuendo sui tre
ai fianchi. Quell'esame fu, perciò, una delusione per lui. Il violino, come capì
dopo, non era affatto stato manomesso e gli spessori erano quelli originali. La
prova gli fu offerta da un'altra fortunata occasione, quando trovandosi a Roma
il famoso quartetto Busch con quattro meravigliosi strumenti di Stradivari,
ottenne, sempre tramite il maestro Molinari, il permesso di vederli. Ne prese i
modelli e misuratine gli spessori fu sorpreso di constatare che essi erano di mm
2,2 e 2,4 per le tavole dei violini, per la viola di mm 2,3 e per il
violoncello variavano da mm 3,5 e mm 3,3. Da allora fu convinto che Stradivari
facesse le tavole proprio in quel modo.
Sacconi costruì il primo suo
violino a quattordici anni all'insaputa del suo maestro che ne rimase sorpreso
come lo vide, riconoscendo nel giovane già un concorrente di doti eccezionali. Egli
intanto cominciava ad avere una sua clientela a casa propria. Ma rimase nella
bottega del Rossi dove eseguì, oltre ai violini, viole da gamba, liuti,
arciliuti, pochettes, viole d'amore, con teste scolpite di donna o vecchio,
mandolini, chitarre, dedicandosi anche alle riparazioni di ogni tipo di
strumenti, compresi quelli a fiato e persino facendo puntine per grammofoni.
Nel 1915 fu chiamato sotto le
armi. Dopo un anno di servizio in batteria fu inviato alla 28a divisione di
artiglieria come disegnatore di mappe. Riportò tre ferite e l'armistizio lo
sorprese a Villafranca in un ospedale dove era stato ricoverato per la febbre
spagnola. Congedato, dopo un ultimo soggiorno al deposito di Palermo, rientrò a
Roma.
In quella città, presso il
maestro Fiorini ebbe modo di vedere la raccolta dei cimeli stradivariani prima
che fossero donati al Museo Civico di Cremona. Una scoperta per lui
elettrizzante. Avendo il Fiorini a quell'epoca la vista indebolita, diede a
Sacconi l'incarico di terminare due suoi violini che aveva cominciato a
modellare ed erano il risultato di cinquant'anni di esperienza artistica. Per
gratitudine gli regalò alcuni disegni autentici di Stradivari riguardanti il modello
di un violino.
Sposò nel 1925 Teresita Pacini,
cognata di Bernardino Molinari. Figlia del baritono Giuseppe Pacini, era nota
come cantante, e Sacconi ricorda con orgoglio un suo concerto a Londra quando
cantò per la regina madre d'Inghilterra. Dopo la nascita del figlio rinunciò a
cantare. Frequentando l'ambiente musicale che si irradiava dal maestro
Molinari, Sacconi venne in rapporto con i migliori violinisti e cellisti di
questo secolo, che furono suoi clienti per consigli negli acquisti di strumenti
musicali antichi e per riparazioni a quelli di cui erano in possesso. Nel
nominarmeli, uno per uno, e desidera che tutti li ricordi, ne traccia
fugacemente il carattere e la personalità artistica. I nomi che mi fa in un
lungo elenco suonano come musicalmente nelle sue parole, quasi tappe della sua
vita, insegne di giorni memorabili per l'incontro avvenuto con uomini di
eccezione; che sono: Casals, Kreisler, Enescu, Heifetz, Elman, Cassadò, Huberman,
Flesch, Busch, Francescatti, Feuermann, Milstein, Piatigorski, Zimbalist,
Salmond, Fournier, Szigeti, Stern, Menuhin, Oistrach, Ricci, Szeryng,
Rostropovich, Primrose, Rose, Perlman, Accardo, Ughi, Zukerman, Du Prè.
Rapporti pure intrattenne con i maggiori compositori del tempo, da Strauss, a
Debussy, a Zandonai, a Respighi, a Casella, a Mascagni e Pizzetti.
Nel 1937 per le celebrazioni del
duecentesimo anno della morte di Stradivari, che si tennero a Cremona, portò
dall'America quindici strumenti del grande liutaio e sedici dei suoi predecessori
e successori, esponendo un suo quartetto che meritò fuori concorso la medaglia d'oro
della città di Cremona. Allievi, colleghi e amici si dettero convegno a New
York nel 1965 attorno al maestro per celebrare il suo settantesimo anno di età.
La città di Stradivari ha voluto nell'ottobre del 1972 insignirlo della
cittadinanza onoraria.
Sacconi abita ora a Point Lookout
sulle rive dell'Atlantico, distante da New York un settanta chilometri che
percorre di buon'ora il mattino parte in automobile e parte in treno e
metropolitana per recarsi alla casa Wurlitzer in Lincoln Center, all'ombra del
grattacielo della Paramount al n. 16 della 61a Strada. Il suo laboratorio è
situato in una stanza luminosa lunga una ventina di metri e larga quattro con
un banco di lavoro presso la vetrata che percorre tutto il lato che dà sulla
strada, con di fronte l'imponente edificio dell’American Bible. Qui lavorano sotto
la sua guida giovani liutai tra i quali un americano, un inglese, un italiano,
un tedesco, un polacco e un francese. Tra i suoi allievi è la figlia della
signora Wurlitzer e una ragazza tedesca; buona fama s'è già fatto, nel gruppo,
Dario D'Attili ora direttore della casa e così Charles Beare di Londra. Da
quarant'anni Sacconi insegna negli Stati Uniti la tecnica liutaria della scuola
cremonese. Nel vicino Metropolitan Museum sono esposti in una sala due violini
di Stradivari, ma ben altro ho avuto modo di vedere, con la guida di Sacconi,
nella camera blindata della casa Wurlitzer. Innanzitutto, l'«Hellier» del 1679,
che è il più prezioso violino intarsiato di Stradivari, e di cui Sacconi ha
fatto una copia; poi due violoncelli, il «Duport» del 1711 e il «Piatti»
del 1720, sempre di Stradivari; dello stesso altri due violini, al momento della
mia visita, erano in prova presso clienti, e un terzo si trovava per
riparazioni in laboratorio. La scuola cremonese è ancora rappresentata da un
Guarneri del Gesù del 1726, da un Carlo Bergonzi del 1732 e da una viola di
Andrea Amati. Vi si trovano inoltre un violoncello di Matteo Goffriller del
1725, un Ceruti, un Pressenda, uno Storioni, un Montagnana e altri strumenti di
autori moderni. Una collezione di archi di famosi archettai inglesi, francesi e
tedeschi è esposta in alcune vetrine e vi primeggiano quelli di François
Tourte.
Di grande interesse è l'archivio
Wurlitzer da Sacconi curato e che ci dà la misura dell'ampiezza delle
informazioni di cui egli ha potuto disporre nel campo della liuteria in quella
sede. Si tratta dei volumi rilegati contenenti le riproduzioni fotografiche di
ciascuno strumento che sia stato oggetto di attenzione da parte della casa con
la descrizione delle riparazioni eseguite e quella dello stato di
conservazione. Ben quindici volumi sono dedicati ai violini di Stradivari, uno
ai figli Francesco e Omobono; tre volumi sono per Andrea Guarneri, tre per
Giuseppe Guarneri, cinque per Guarneri del Gesù, due per Carlo Bergonzi e i
figli, uno per Andrea e Gerolamo Amati, due per Ruggeri, altrettanti per il
Ceruti e il Montagnana e ancora altri novanta per autori minori italiani e
stranieri. Tutto questo riguarda soltanto il secondo ventennio di attività di
Sacconi a New York, dovendosi tener conto di quello anteriore presso la casa
Herrmann dal 1931 al 1950. Si spiega allora nel libro l'eccezionale
documentazione attinta direttamente dagli strumenti, quel senso in Sacconi di
presenza ancora del fatto artistico antico sentito come lezione valida tuttora.
A Point Lookout, all'estremità di
Long Island, il maestro abita in un villino in muratura a due piani, con
veranda a pian terreno, un po' di verde attorno, qualche albero da frutta, un abete
che nasconde gran parte della facciata, e cinto da una muraglietta. Se lo fece
costruire una trentina d'anni fa, quando c'era ancora terreno incolto con rare
costruzioni e davanti il mare aperto dell'Atlantico su due lati e sul fianco
nord a un tiro di fucile lo stretto di Jones Beach, al di là del quale, a poche
miglia, è la più famosa spiaggia balneare degli Stati Uniti. Panorami
cancellati ora da uno stuolo di casette per la maggior parte in legno. Sacconi
è contento di vivere qui, di lavorarvi in tranquillità gran parte della
settimana, trascorrendone due giorni soltanto a New York. Al piano superiore ha
il suo laboratorio, che è un ambiente molto luminoso con vetrate presso le
quali è un banco con forme di violini, qualche tavola, svariatissimi attrezzi
di lavoro e alcune boccette di vetro. Alle pareti sono appesi strumenti in
corso di lavorazione con e senza vernice. Ci si muove a fatica essendo la
parete più lunga interamente occupata da scaffalature a vari piani, colme di
bottigliette e vasetti contenenti sostanze chimiche e materie prime per
produrle. Mi indica in un vasetto i pistilli dello zafferano, in un altro le
cocciniglie secche da cui ricava una polverina per i rossi, mi mostra la radice
di robbia, un tempo sul mercato per i pittori, e il cui estratto, l'alizarina,
gli serve per ottenere dei rossi dorati. Se la procura in Messico dove fu
importata, pensa, dagli spagnoli; in Europa si trova in vendita in un paesino
della Provenza, vicino ad Avignone, Grasse, mi dice, e si produce per i profumi
e una volta per tingere la stoffa dei calzoni delle uniformi dell'esercito
francese.
Tavole di legno sono sparse un
po' dappertutto, ma è quando Sacconi le prende in mano, me le pone sotto gli
occhi e ne parla, ne dice gli anni del taglio, quaranta, sessanta, ottanta
anche, che mi rendo conto della loro bellezza per lo spicco netto degli anelli
stagionali, le onde delle marezzature e i toni dell'abete o dell'acero. Ne ha
appoggiate alle pareti, sotto e sopra il banco e un cospicuo deposito nella
piccola soffitta. Un materiale che è andato raccogliendo durante la sua vita
fornendosene in Italia, in Jugoslavia, nei Balcani, in Germania, presso antiche
ditte o fornitori specializzati nel rintracciare i legni richiesti. «Un buon
violino richiede legno di almeno un quarant'anni» dichiara. Aggiunge la
Signora Teresita: «Vale più il legno che abbiamo che la casa, un patrimonio
però che nessuna società accetta di assicurarci, non capiscono come si possano
assicurare delle tavole di legno come queste.»
Nel piccolo giardino ci sono
piante di viti americane insieme a una di moscato, importata quest'ultima
dall'Italia, ma la cui uva dopo alcuni anni dal trapianto ha preso il sapore di
quella stessa americana. Non sono i pochi grappoli che può cogliere a
interessare Sacconi, bensì quel tanto di rami cui dare fuoco perché, come gli
antichi, egli brucia i sarmenti delle viti per impiegarne le ceneri che sciolte
in acqua gli forniscono una certa qualità di potassa, elemento adoperato per la
preparazione chimica dei colori della vernice. Ci sono quattro alberi di
ciliegie, ma i passeri che qui nessuno uccide si mangiano i frutti e a Sacconi
non resta che utilizzare la gomma che i tronchi trasudano, utile per le sue
vernici. Persino nella evasione sportiva della pesca c'è qualcosa, a un certo
momento, che riporta l'artista al suo mestiere. Sacconi mi fa vedere
nell'autorimessa un ricco corredo di attrezzi per la pesca che pratica nello
stretto di Jones Beach e nelle vicinanze dove prende delle striped bass
o grosse spigole che erano molto apprezzate da Toscanini quando era suo ospite.
All'epoca in cui Toscanini risiedeva a New York, andava a villeggiare con la
famiglia a Point Lookout, dove abitavano i Sacconi e in Italia diverse volte le
due famiglie trascorsero insieme l'estate a Positano. Sacconi ricorda d'aver
trovato il cliente che acquistò il violoncello da Toscanini usato prima di
divenire direttore d'orchestra. A proposito della pesca, mi racconta che gli
capita di prendere anche dei palombi della lunghezza persino di un metro. Mi
ricordo allora che in qualche parte del libro è nominato questo pesce, e mi
risponde che del palombo gli serve la pelle che tende e inchioda contro un'asse
per farla diventare secca e impiegarla poi per levigare il legno lavorato prima
con la rasiera.
L'ultimo episodio della mia
visita a Sacconi mi riserbò una sorpresa quando la signora Teresita mi mostrò
una grande scatola che scoperchiata vidi colma di piccoli involti di carta. Non
potevo scambiarli per quelli d'una lotteria di beneficenza, e non potevo certo
immaginare, come mi fu spiegato quando mi venne aperto uno di quegli involti,
che essi tutti contenevano piccoli frammenti di vernice degli strumenti
musicali che Sacconi aveva riparato nel corso della sua vita. Instancabili sono
sempre state per lui le ricerche sul trattamento della vernice la cui qualità
ed efficacia estetica e possibilità di buona conservazione, essendo le
risultanti di un sistema di rapporti, dipendono dall'arte di interpretarlo e
non dall'uso meccanico di una ricetta. Niente di magico in quest'ultima, ma
dosature, tempi e modi di applicazione. Di conseguenza anche il liutaio non è
la figura che vediamo in un quadro del secolo XIX del Rinaldi, dove Stradivari
è qualcosa di mezzo tra Faust e un ciabattino in grembiule, con occhiali,
dinanzi a un deschetto, in atto di reggere con una mano un violino e nell'altra
un alambicco in controluce, in una bottega che sta fra l'antro e la cantina,
con strumenti sparsi qua e là e che, a ben osservare, mi fa notare Sacconi, sono
di forma ottocentesca.
Se si fa bene attenzione nel
testo alle documentazioni fornite da Sacconi, non si potrà sospettare che
l'autore – liutaio – si sostituisca a Stradivari nella descrizione del sistema
costruttivo dei suoi strumenti musicali, prestandogli le proprie esperienze
d'artista; anche se è certamente da queste che ricerche e sperimentazioni sono
nate, dando validità di prova a quanto egli ora afferma. Non c'è osservazione
di carattere tecnico fatta da Sacconi che non rimandi a un fatto particolare
riscontrabile nei cimeli stradivariani del Museo di Cremona o negli strumenti
del liutaio cremonese. La supposizione è rara, ma quando è avanzata si presenta
come ovvia.
*****
Qualcosa va detto sulla origine e stesura di questo libro corredato dal
Catalogo dei cimeli stradivariani del Museo «Ala Ponzone» di Cremona. I cimeli
vennero donati dal liutaio Giuseppe Fiorini e furono da lui acquistati dalla
marchesa Paola Della Valle del Pomaro in Torino. In precedenza, erano stati in
possesso del conte Cozio di Salabue che li aveva avuti parte dal figlio di
Antonio Stradivari, Paolo, parte dal nipote Antonio. L'illustrazione di ogni
pezzo, che viene data alla stampa per la prima volta in questo libro e stesa da
Sacconi, integra il testo che la precede rappresentando una testimonianza
fondamentale della tecnica costruttiva di Stradivari. L'occasione che mi spinse
a rivolgermi a Sacconi per la dettatura di una scheda per ogni pezzo, mi fu data
dalla sua venuta a Cremona quando fu acquistato, nel 1961, da parte della
città, un violino di Stradivari, «Il Cremonese 1715», ora in una sala del
Municipio. Sapevo fin dal 1952, durante una visita di Sacconi al Museo, insieme
a Rembert Wurlitzer, della loro intenzione di stendere un catalogo dei cimeli
stradivariani, ma della cosa non s'era poi fatto nulla.
Si dette la combinazione, poi,
che in quegli anni conducessi uno studio sulla tarsia rinascimentale, e mi
parve di dover chiedere a Sacconi la conferma di una osservazione che mi
sembrava si dovesse fare: essere rifluite le esperienze tecniche del
trattamento del legno acquisito dalla tarsia nel Rinascimento, con la decadenza
di questa, nella liuteria. Quando lo condussi davanti al monumentale Armadio
intarsiato del Platina, del 1477, e al Coro dello stesso eseguito per il Duomo
nel 1489, la sua prontezza di vera e propria lettura dei tipi, delle parti,
delle caratteristiche delle varie essenze divenute forma, disegno e colore nel
linguaggio pittorico, fu per me illuminante e di aiuto per il problema che mi
ponevo dei rapporti fra tecnica e stile. Fu allora che avendomi confessato che
non c'erano per lui segreti sulla tecnica stradivariana, gli feci osservare che
un'esperienza come la sua non avrebbe dovuto limitarsi a qualche appunto
manoscritto sui cimeli del Museo e a semplici confidenze verbali, ma che
sarebbe potuta divenire patrimonio culturale comune se egli avesse scritto un
libro sull'argomento. Mi rispose che gli costava meno fatica fare un violino
che scrivere, di sapere adoperare meglio la sgorbia che la penna. Ma in una sua
lettera da New York, per spiegare l'identificazione della forma impiegata da
Stradivari per il «Cremonese 1715», egli aveva steso un testo degno di un
manuale di liuteria. Si trovava già abbozzato in quelle pagine, in cui era in
sintesi descritto il sistema costruttivo degli strumenti musicali
stradivariani, lo schema di un libro.
Quando venne, qualche anno più
tardi, a Cremona con due violini cremonesi, un Niccolò e un Andrea Amati, pure
acquistati dalla città, e dimostrò che la preparazione per la vernice dei due
strumenti era ancora la stessa di quella usata per le tarsie dell'Armadio e del
Duomo, da lui saputa far rinvenire, e che quella sostanza provocava come un
lieve processo di ossificazione del legno, ritornai sull'argomento del libro.
Tacque allora sulle sostanze costitutive della preparazione della vernice, ma
come accolse il progetto di scrivere un libro, mi assicurò che, in quel caso, ne
avrebbe parlato. Segreto per modo di dire, diceva, perché all'epoca di
Stradivari le componenti della vernice e la materia per la preparazione e il
loro impiego eran cose note ai liutai.
Mi colpiva sempre, ascoltando
Sacconi parlare del suo mestiere, il linguaggio preciso e molto comunicativo.
Bastano un paio d'ore della sua compagnia per essere contagiati sull'argomento.
Da tale conversazione poteva nascere, almeno in parte, o prendere inizio il
libro che avrebbe dovuto dettare. Ci sarebbe stato il sussidio della corrispondenza.
Si trattava di trovare la persona adatta che si sobbarcasse alla fatica della
stesura del testo. Non doveva essere un vero e proprio tecnico del mestiere con
opinioni precostituite, ma persona che si lasciasse passivamente e insieme con
entusiasmo ammaestrare, in parte un amanuense intelligente, in parte un
trascrittore capace di sintesi. Seppi allora che durante alcune lezioni tenute
da Sacconi alla Scuola di Liuteria locale il dottor Bruno Dordoni, che aveva
partecipato alle vicende per l'acquisto dei violini di Stradivari e degli
Amati, si era preso alcuni appunti che il maestro aveva apprezzato. Fu così che
egli iniziò la stesura del libro. Le redazioni che di volta in volta erano
potute sembrare definitive apparivano poi incomplete per l'accavallarsi dei
problemi che sorgevano, da parte di Sacconi, cui non sembrava mai di essere
riuscito a dar fondo a quanto aveva da dire sull'argomento, e riuscendo la
parola scritta sempre più stimolante nella progressiva presa di coscienza che
vi prendeva delle proprie esperienze. Il testo diveniva attraverso la
maieutica, per così dire, di Dordoni, sempre più la parola del maestro. Sacconi
impiegava vecchi suoi appunti e un altro testo era costituito dalle numerose
lettere che inviava da New York, risposte precise a quesiti e argomenti particolari.
Dordoni nei lunghi anni che dedicò a codesto lavoro finì con l'assimilare la
materia divenendo da non competente un «esperto» sotto la guida di Sacconi e a
riuscire un perfetto interprete del suo pensiero.
Sacconi ha qui avviato un
discorso di tecnica pura che nessuno seppe fare prima di lui su Stradivari. Non
si dice nulla della vita, delle scarse notizie conservate nelle vecchie carte
d'archivio e che molti studiosi hanno illustrato: dal Sacchi, al Lombardini, a
Hill, al Bonetti, al Mandelli, al Cavalcabò, al Gualazzini, al Bacchetta, al
Baruzzi e recentemente al libro del giornalista Elia Santoro che esce in questi
giorni sui «Traffici e falsificazioni di violini di Stradivari» (Annali della
Biblioteca Statale e Libreria Civica di Cremona, 1972) molto utile per le nuove
notizie che ci fornisce e soprattutto sui rapporti del liutaio cremonese con la
società del proprio tempo. Non era certo questo tipo di lavoro che si poteva
chiedere a Sacconi, e neppure il libro doveva essere una graduatoria d'onore
sui pregi o meno degli strumenti di Stradivari, essendone egli stato il medico
di quasi tutti. È comprensibile che abbia voluto evitare confronti tra l'uno e l'altro,
anche quando sarebbero stati utili per l'informazione.
Che egli non sia entrato in campo
storico erudito non significa che non conosca molto bene la letteratura
sull'argomento. Nel testo è sottintesa e il lettore può avvertirla tra le
righe. Egli comunque inizia un nuovo capitolo della storia della tecnica
stradivariana, che inoltre adotta ancora nella propria esperienza artistica.
Del controverso problema
della data di nascita di Stradivari Sacconi tratta rapidamente dal punto di
vista delle sue conoscenze dirette degli strumenti, avendo avuto sotto mano
quasi tutte le etichette dei violini dell'ultimo periodo, a cominciare dal 1732
e recanti l'indicazione dell'età a volte in stampatello, a volte in corsivo.
Per Sacconi, salvo rarissimi casi in cui la calligrafia è dei figli, esse sono
autografe. Perciò la data di nascita per lui sarebbe il 1644. Dall'atto
parrocchiale di morte risulta l'anno del decesso di Antonio Stradivari, il
1737.
Prefazione del professor Alfredo Puerari, direttore dei Musei Civici di Cremona, al libro: «I 'segreti' di Stradivari» di Simone Fernando Sacconi. Libreria del Convegno Editrice, Cremona 1972.
Ultimo a destra nella foto: il professor Alfredo Puerari, direttore dei Musei Civici di Cremona (1972).