Settantacinque anni fa mio padre fondò la prima scuola professionale della Turchia. Egli ha sempre precorso i tempi e ha avuto quindi sempre dei problemi, ma è tuttavia riuscito a introdurre corsi d'artigianato nel normale programma scolastico: intaglio del legno, ferro battuto, calzoleria, giardinaggio, cucina, ecc. Questi corsi si dimostreranno più tardi di grande importanza nella mia vita. Infatti è stato grazie al corso di intaglio che ho poi deciso di cominciare a fare il liutaio. Un giorno chiesi a mio padre di comprarmi un violino e lui mi rispose: "Non ho abbastanza soldi per comprartene uno, ma, se vuoi, posso comprarti il legno e puoi cercare di costruirtene uno tu stesso." A quell'epoca volevo diventare un ingegnere meccanico, ma più tardi cambiai idea e divenni liutaio.
Diventarlo è stato per me molto difficile, perché in Turchia nessuno sapeva fare violini o, se qualcuno sapeva qualcosa, non voleva insegnarlo. Quando cominciai a lavorare sul mio primo violino non sapevo nemmeno piegare le fasce! Dovetti costruirmi da me l'attrezzo per piegarle e finalmente riuscii a fare il violino. In seguito mio padre mi portò da un suo amico farmacista ad Istanbul, che era uno scultore dilettante e faceva anche violini, ma si teneva tutto segreto. Quando vide il mio violino pensò che avessi copiato uno dei violini degli zingari cecoslovacchi, perché non aveva né punte, né blocchi laterali, né blocco superiore. Mi prese con sé, ma era così impegnato che ogni volta che dovevo chiedergli qualcosa dovevo aspettare mezz'ora o magari anche un'ora. Nonostante ciò, feci altri due violini e mostrai il mio terzo a Jacques Thibaud, che mi incoraggiò ad andare in Francia.
Ci andai, sperando di poter lavorare, ma i liutai francesi mi chiesero di essere pagati per insegnarmi. Mio padre non era in grado di aiutarmi ed è stata una fortuna che io avessi seguito quei corsi di artigianato nella sua scuola, perché così riuscii a mantenermi facendo scarpe e dolci turchi durante i tre anni e mezzo che studiai con Marcel Vatelot. Poi tornai a lavorare in Turchia, ma dopo venticinque anni decisi di lasciare il Paese a causa di problemi politici tra Armeni e Turchi.
Chiesi a Marcel Vatelot e a Pierre Fournier se avessi potuto andare alla Casa Wurlitzer, che a quell'epoca era la migliore nel mondo. Talora avevano lì anche fino a dieci-quindici Stradivari per volta. Andai davvero da Wurlitzer nel 1958 e quando arrivai non sapevo una parola d'inglese, ma soltanto francese, turco, armeno e un po' di greco. Sacconi e alcuni degli altri liutai conoscevano il francese, il che mi ha molto aiutato all'inizio.
Dapprima mi misero nel retrobottega e mi diedero tutti gli strumenti più scadenti, ma sapevo di dover portare pazienza. Un giorno dovetti fare una riparazione su una vecchia viola, e ciò che feci andava bene, ma modificò il suono dello strumento e il probabile cliente non volle più comprarla. Capii che era cambiata la tensione quando avevo riparato la tavola armonica, che si era abbassata di circa sette millimetri; domandai quindi al signor Wurlitzer di lasciarmi provare a ridurre la tensione alzando il capotasto inferiore. La mia idea funzionò e da allora, se c'era qualche problema, il signor Wurlitzer mi lasciava fare ciò che volevo. Questo creò attriti nella bottega, poiché io ero appena arrivato e gli altri erano lì già da 10 o più anni. Comunque, a poco a poco, mi diedero lavori sempre più difficili, il che mi stimolava moltissimo e rimasi lì per dieci anni. Dopo la morte del signor Wurlitzer, lentamente le cose cominciarono ad andar storte e quattro di noi decisero di andarsene. Fu un vero peccato perché, finché furono vivi, Wurlitzer e Sacconi riuscivano ad assumere ottimi liutai e si assicuravano che gli strumenti riuscissero sempre in perfette condizioni.
Secondo me, era proprio Sacconi il più grande nelle riparazioni. Era così prudente per carattere e anche nel suo lavoro che sbarrò la porta a ogni possibile errore, e insisteva che ogni cosa venisse fatta alla perfezione. Era un grande, non soltanto per le sue altissime qualità, ma anche perché aveva un occhio così acuto che neanche il pur minimo dettaglio gli sfuggiva. Gli sono molto grato per ciò che ha fatto, perché è stato una guida per tutti noi e, se siamo riusciti, lo dobbiamo a lui. Ricordo una volta che ebbe il difficilissimo incarico di rappezzare l'intero fondo di un Guarneri che era stato roso dai tarli e quando me lo mostrò dopo due mesi di lavoro non riuscii a trovare traccia del restauro tanto era perfetto. Sacconi studiò Stradivari tutta la sua vita. Era infatti così fanatico del lavoro di Stradivari che chiamò addirittura la sua barca «Strad»! Conosceva un'infinità di dettagli del lavoro di Stradivari, ad esempio come si sedeva per filettare! Ma la cosa più importante era che egli conosceva il carattere dello strumento e della vernice. Una volta fu l'unico della bottega a riconoscere due Stradivari dai quali era stata tolta la loro bella vernice caratteristica, e senza la vecchia vernice italiana non rimane molto.
Una volta dissi a Sacconi che quando guardavo i suoi strumenti vedevo Stradivari invece che lui ed egli mi disse: "Lo sai Nigo, trentacinque anni fa mi hanno detto la stessa cosa. Ho cercato di fare le cose in modo diverso ma, provando e riprovando, ho trovato che il metodo Stradivari è il migliore." Dopo aver visto tanti Stradivari, credo che avesse ragione. Nel suo lavoro fece gli esperimenti più svariati e, quando vedeva che una cosa era sbagliata, tornava indietro e provava qualcos'altro. Stradivari era un così grande genio che era in grado di fare strumenti perfetti anche con metodi antichi. Il suo lavoro era così eccezionale che, senza gli strumenti di misura, non avresti potuto accorgerti nemmeno di certe notevoli irregolarità, come ad esempio i quattro millimetri di differenza tra le punte di uno dei suoi violoncelli.
Altri vecchi maestri italiani minori usavano gli stessi metodi, ma il loro lavoro era così imperfetto che non li avrei mai assunti nella mia bottega. Un violino moderno fatto come questi avrebbe un pessimo suono e l'unica ragione del loro bel suono è che il legno ha vibrato per tanti anni. Altri della stessa epoca che non sono stati usati non suonano altrettanto bene. Ho imparato tutto questo lavorando con Sacconi.
Alcune volte discutevamo del lavoro che si doveva fare, ma questo in verità non gli piaceva. Ricordo quando dovemmo fare una riparazione d'emergenza sul violoncello Amati del Juilliard Quartet. Fu dato il manico a Bellini, la tavola armonica a René Morel, credo, e il fondo toccò a me. Aveva una grande spaccatura sotto l'anima e un'altra vicino, oltre a essere deformato. Di solito le bombature deformate le si mette sotto pressione, ma questa volta fui costretto dalle crepe a inventare una tecnica speciale. Sacconi non voleva lasciarmi attuare l'idea che avevo, perché era convinto che non avrebbe funzionato, ma essendo io un armeno cocciuto e ostinato ottenni il permesso da Rembert Wurlitzer di procedere. Fortunatamente tutto funzionò alla perfezione e Sacconi fu molto felice del mio lavoro, anche se poco prima era sicuro che avrei finito col trovarmi un buco nello strumento.
Inoltre non eravamo sempre d'accordo sul tipo di suono che uno strumento dovesse avere. Gli piaceva sempre forzare un po' il violino, tirando tutto ciò che poteva. Alcuni musicisti hanno avuto difficoltà con le sue montature, che faceva un po' alte, rallentando la risposta dello strumento e costringendo il musicista a usare maggiore pressione. Comunque, accettò il mio metodo di cambiamento della pressione alzando o abbassando il capotasto inferiore.
Ho un grandissimo rispetto per Sacconi. Ci sono pochissimi artisti come lui. Egli pensava solo al suo lavoro, non ai soldi o ad altre cose. Non ebbe sempre vita facile perché ragionava come un artista e non in termini di affari. Qualche volta non si rendeva conto di certe cose pratiche, come quanto tempo sarebbe occorso per fare un certo lavoro. Era anche un pochino all'antica nella sua paura del capo. Una volta gli dissi: "Lei ha le capacità, lui ha i soldi, e le Sue capacità valgono tanto quanto i suoi soldi, se non di più. Di che cosa ha paura? Lei è Sacconi!" Tuttavia era sensibile e vulnerabile e io credo che alcune circostanze particolari abbiano causato la sua morte prematura. Poco prima di morire, mi spiegò la sua situazione e poi cominciò a piangere. Ora è troppo tardi e io non voglio riaprire vecchie ferite, ma sono ancora furibondo per la sua fine. La sua opera è tuttavia sempre nella mia mente e so che il lavoro della sua vita è ancora importante per tutti noi.
New York, 1 marzo 1984
Tratto dal libro: «Dalla liuteria alla musica: l’opera di Simone Fernando Sacconi», presentato il 17 dicembre 1985 alla Library of Congress di Washington, D.C. (Cremona, ACLAP, prima edizione 1985, seconda edizione 1986, pagg. 101-104 - Italian / English).