Il Maestro Sacconi
nella testimonianza della liutaia
Wanna Zambelli


Cremona, 29 giugno 1985


Ho visto per la prima volta Simone Fernando Sacconi nel 1968, alla Scuola di Liuteria di Cremona, dove allora frequentavo il primo anno di corso. Me lo ricordo attorniato dai pochi allievi della Scuola (eravamo una decina in tutto) incuriositi e attentissimi alle sue spiegazioni. Già molto prima del suo arrivo, si era creato un clima di grande attesa, come se la sua visita fosse un evento eccezionale, importantissimo. E mi chiedevo chi fosse mai questo grande esperto, che veniva dall’America con la fama di aver riparato tantissimi strumenti antichi. Avrei voluto parlargli, ma essendo solo agli inizi, del tutto inesperta e timorosa, non ne ho avuto il coraggio. Con lui ho parlato invece in occasione di una sua successiva visita alla Scuola, nel 1971; ricordo che passando fra i banchi da lavoro si fermò anche al mio, guardò con interesse il violoncello che stavo costruendo e mi diede preziosi suggerimenti.

Dopo di allora l’ho incontrato nella bottega del maestro liutaio Francesco Bissolotti, dove, terminata la Scuola, ho perfezionato la mia preparazione negli anni dal 1972 al 1975. Ed è stato appunto tra l’estate e l’autunno del 1972 che ho avuto la possibilità di conoscere Sacconi, di apprendere da lui soprattutto quel grande amore per la liuteria che ancor oggi è per me una ragione di vita. Me lo ricordo al banco da lavoro intento, con Bissolotti, alla costruzione di un violino ispirato al modello dello Stradivari «Il Cremonese» 1715, costantemente attorniato da persone che lo assillavano con domande e con richieste di chiarimenti e pareri. Stava ultimando in quei mesi il suo libro «I ‘segreti’ di Stradivari» e chi lo aiutava nella stesura veniva quasi ogni giorno da lui. Era così indaffarato che dopo qualche tempo, per poter lavorare con più calma e maggiore concentrazione, al pomeriggio cominciò a venire in laboratorio prima dell’orario previsto, quando ancora non c’era nessuno, tranne me che, arrivando ogni mattina da fuori Cremona, passavo l’intervallo appunto nel laboratorio, con qualche panino. È stato in quei momenti soprat­tutto che ho avuto modo di imparare da lui. Gli parlavo con natura­lezza, sicura che avrebbe capito al volo il significato delle mie domande, anche le più rozze e imprecise, sicura che avrebbe soddi­sfatto le mie curiosità, anche le più sciocche. La sua affabilità, la sua grande disponibilità (e di tempo ne aveva pochissimo!) mi facevano superare la naturale ritrosia, il carattere chiuso e scontroso che, a detta di tanti, faceva allora di me un soggetto difficile da trattare. Con Sacconi riuscivo a comunicare con immediatezza, senza timori; parlava con me, che in fondo ero l’ultima arrivata, come se parlasse con un suo collega o con un famoso violinista; mi spiegava le cose con semplicità, con una chiarezza che me le rendeva quasi ovvie. Ho capito più tardi che, oltre che un grande liutaio, era innanzitutto un grande uomo.

Ciò che mi colpiva in lui era anche quel suo interesse smisurato, quella sua mania per Stradivari, una sorta di fanatismo. Una cosa che trovavo strana – e di cui soltanto più tardi ho potuto sperimentare l’importanza – era il fatto che, durante la lavorazione de «Il Cremonese», Sacconi costruisse appositamente e usasse ferri e attrezzi uguali a quelli a suo tempo utilizzati da Stradivari. Perché, mi chiedevo, dal momento che gli utensili che usavamo allora da Bissolotti sembravano più moderni? Mi sono poi resa conto che in effetti, anche se apparentemente più rozzi di quelli moderni, quei ferri erano più funzionali, più pratici, soprattutto se si volevano ottenere determinati risultati.

Un giorno, insieme anche a Bissolotti e Andrea Mosconi, andammo in ospedale – dove lui assisteva la moglie Teresita, che vi era ricoverata – portando una tavola di violino nella quale avremmo dovuto praticare i buchi delle «ff» di riso­nanza (gli occhi delle «ff») sperimentando l’uso di piccoli attrezzi che Sacconi stesso aveva realizzato sulla falsariga di quelli di Stradivari. Nessuno voleva provare per paura di rovinare la tavola e così lui, dopo avermi spiegato esattamente il procedimento, disse a me di fare il primo buco, anche perché, essendo la meno esperta, avrei avuto minore responsabilità. L’operazione riuscì a meraviglia.

Oltre alla costruzione di attrezzi, nel laboratorio di Bissolotti, e con il suo aiuto, Sacconi aveva anche iniziato la preparazione di una nuova vernice, che voleva simile a quella di Stradivari e il cui procedimento ha poi minuziosamente descritto nel suo libro; era costantemente alla ricerca di sostanze naturali, di resine introvabili, era una sperimentazione continua. E mi parlava di liuteria anche mentre alcune volte lo accompagnavo, con la mia Fiat 500, a trovare Teresita all’ospedale. Ricordo che all’inizio era un po’ una tragedia, perché lui non si fidava affatto di salire su una macchina così piccola, che avrebbe potuto incastrarsi in qualsiasi buco. Ma poi, per necessità, ha dovuto rischiare e non l’ho mai sentito lamentarsi dell’autista.

Ero affascinata dal suo grande amore per gli strumenti antichi. Li amava più di qualsiasi altra cosa; quando li prendeva in mano sembrava quasi che li accarezzasse, eppure li maneggiava normalmente, anche con una certa forza. Parlava degli strumenti chiamandoli per nome, come se fossero persone, e ne ricordava tutti i particolari, aveva una memoria incredibile. Diceva che avrebbe voluto scrivere un libro anche sul restauro, nel quale spiegare tutte le sue tecniche perfezionate per anni presso la Casa Herrmann e poi da Wurlitzer (grandi case di restauro a New York, ndr); purtroppo, non ne ha avuto il tempo.

Avrebbe voluto che io andassi con lui in America a imparare il restauro, ma mi sentivo allora troppo inesperta e insicura, m’ero convinta che non sarei mai riuscita a dimostrarmi all’altezza della stima che aveva per me. Ho rinunciato per timore di deluderlo, ma anche perché forse mi sentivo più attratta dalla costruzione degli strumenti nuovi, pur comprendendo quanto emozionante po­tesse essere il lavoro del restauratore. Le ricerche condotte da Sacconi, i suoi esperimenti sulle ver­nici – cui ho assistito nel laboratorio di Bissolotti – le sue spiegazioni tecniche anche di fatti particolarissimi o apparentemente insignificanti mi hanno fatto capire come dopo Stradivari si siano andati via via complicando, a scapito della qualità, procedimenti e sostanze che erano originariamente semplici e naturali; ed è appunto quella semplicità e quella qualità che Sacconi, nella vastità delle sue conoscenze ed esperienze, ha voluto recuperare.

Sacconi non è stato il mio maestro in senso stretto, ma i mesi che ho trascorso con lui e il grande amore per la liuteria che ha saputo trasmettermi mi faranno per sempre rimpiangere di non essere stata più a lungo sua allieva.

Cremona, 29 giugno 1985

Tratto dal libro: «Dalla liuteria alla musica: l’opera di Simone Fernando Sacconi», presentato il 17 dicembre 1985 alla Library of Congress di Washington, DC (Cremona, ACLAP, prima edizione 1985, seconda edizione 1986, pagg. 170-172 - Italian / English).